Taglio del peso: Il corpo in ostaggio della bilancia

Taglio del peso: il confine sottile tra sacrificio e autodistruzione
Mi ha profondamente colpito la fotografia di Fabio Mastromarino, che con coraggio ha deciso di mostrare pubblicamente la disfatta di una pratica antica e controversa: il cosiddetto “taglio del peso”. Un’immagine che scuote, che fa discutere, che mette davanti agli occhi di tutti una realtà scomoda.
Perché una cosa è lavorare su sé stessi per eliminare i chili di troppo, un percorso che può avere senso non solo dal punto di vista sportivo ma anche di salute. Tutt’altra cosa, invece, è costringere il corpo a raggiungere un peso innaturale, a scendere sotto la propria soglia di sopportazione, fino a piegarlo e a metterlo in serio pericolo.
È necessario, e lo ripeto, necessario, non fermarsi al facile coro del “trend virale” che esplode e si esaurisce in poche ore. Bisogna fermarsi a riflettere, a guardare questa pratica con occhi più lucidi, meno superficiali. Sono anni, decenni, che si parla del devastante effetto che il weight cutting ha sul fisico degli atleti. Non è certo una novità: in America è all’ordine del giorno, nelle nazionali è una prassi consolidata. Eppure continuiamo a far finta di non vedere.
Quanti pugili, quanti atleti hanno sacrificato la loro salute per rientrare in una categoria, per poter competere, per sentirsi “sicuri” di esserci? Quanti sono stati spinti a inseguire numeri sulla bilancia piuttosto che la cura del proprio corpo? Ci nascondiamo dietro l’ipocrisia o vogliamo finalmente essere coerenti e onesti con noi stessi?
Il taglio del peso non è mai stato una favola romantica dello sport: ieri si faceva con metodi rudimentali, sudando fino allo stremo dentro felpe, sacchi di plastica e allenamenti disumani. Oggi le tecniche sono diventate più raffinate, più scientifiche, ma la sostanza non cambia. Si continua a chiedere al corpo di sopportare l’insopportabile.
Il problema vero è che, finché non ci saranno regolamentazioni chiare e vincolanti da parte delle più prestigiose sigle sportive, tutto resterà confinato a una scelta personale. Una scelta che, purtroppo, spesso non è del singolo atleta, ma imposta dal sistema, dall’allenatore, dalla necessità di “rientrare nei ranghi”. E le conseguenze, come sempre, le paga la persona, con il suo corpo e con la sua salute.
In alcuni paesi, i professionisti hanno la fortuna di essere seguiti da equipe mediche specializzate, che monitorano ogni processo, riducendo almeno i rischi più estremi. Ma la vera piaga resta il fai da te, quella mentalità che porta molti a improvvisare senza alcuna competenza, mettendo in serio pericolo la propria vita.
Io resto fermamente contrario a questa pratica. Tuttavia, devo riconoscere che oggi, in mancanza di una legge chiara, resta per molti una scelta personale, e per altri una regola imposta.
La mia speranza, quella che condivido con chi ha davvero a cuore la salute degli atleti, è che si arrivi finalmente a una legislazione concreta, capace di proteggere chi sceglie di dedicare la vita allo sport senza doverla sacrificare su una bilancia.