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Interviste

Luca Papola: “Volevo che mia madre mi vedesse ancora vivo.”

Luca Papola: “Volevo che mia madre mi vedesse ancora vivo.”
  • PublishedSettembre 26, 2025

Se il mondo del pugilato e il grande pubblico hanno conosciuto, con sgomento, la drammatica vicenda di Daniele Scardina, pochi sanno che due anni prima un’altra storia, altrettanto intensa e dolorosa, aveva colpito Luca Papola. Un ragazzo che nel ring ha dato tutto, senza mai risparmiarsi, e che oggi racconta la sua esperienza con la lucidità di chi ha visto in faccia la morte e ha deciso di trasformare il dolore in un messaggio per gli altri.

Luca, di solito questa è una domanda che si fa alla fine di un intervista quanto ti manca il pugilato?Non mi manca affatto,io ho dato il massimo non posso rimproverarmi nulla. Ma soprattutto,non mi guardo dietro,è storia.

Partiamo dal principio: puoi ricostruire per noi la tua carriera fino al match con Jacopo Fazzino del febbraio 2021 passando per la cintura conquistata contro Enio Zingaro?
R:La mia carriera è iniziata nella categoria youth, in un palazzetto a Pomezia. Quel giorno mi sentivo carico, pieno di energia, e riuscii a vincere ai punti il match, che credo fosse un quarto di finale. Dopo quell’incontro, però, rimasi scarico ed esausto per giorni. La settimana successiva avevo la semifinale, ma disputai un incontro pessimo: non avevo neanche voglia di combattere.
Per un anno e mezzo mi ero preparato solo per quell’esordio, mi sentivo ripetere  frasi come: “Tra una settimana combatti, preparati”. Un’attesa infinita che mi aveva consumato.Così, già al mio secondo incontro da dilettante ero mentalmente esausto.
Mi allenavo tutti i giorni, per ore, con allenamenti che oggi ritengo inadeguati.
Da lì in poi iniziai a gareggiare da youth contro categorie superiori: da terza serie contro i seconda, da seconda contro i prima. Pensandoci bene ero diventato il “collaudatore”, quello che chiamavano per far vincere facile gli altri. Quando un atleta era troppo forte e non trovava avversari, i maestri dicevano: “Chiama Papola, qualunque peso. Papola viene sempre avanti ma non conclude, così vinci”.
Ed era vero: io non concludevo mai.
Quel percorso fu un massacro, non solo fisico ma anche interiore. Mi impegnavo tantissimo, ma non riuscivo mai a vincere: spesso pensavo di mollare, piangendo sotto la doccia dopo l’ennesima sconfitta.
Spesso venivo deriso, non solo per la tecnica, ma anche perché perdevo sempre. Dopo una carriera dilettantistica vissuta così, arrivai al professionismo, dove mi fecero ripetere più o meno la stessa trafila: incontri troppo duri, cali peso eccessivi e pericolosi.
Per esempio, già al terzo match da professionista affrontai Ruffini, che era fuori dalla mia portata, e subito dopo Khalladi, che nessuno voleva incontrare.
Affrontai il match a digiuno, finii in confusione e persi per decisione non unanime, subendo colpi mentre ero in ipoglicemia e rischiando la pelle. Poco dopo combattei di nuovo, facendo il peso la mattina stessa invece che il giorno prima, continuando a mettere a rischio la mia salute.
Alla fine, però, arrivai al titolo di seconda serie contro Zingaro. Riuscii persino a vincere, e tu già sai che al verdetto non riuscii a trattenere le lacrime di gioia.

Dopo quell’incontro molte persone si sono chieste che fine avessi fatto?
Non avevo smesso, anzi: continuavo ad andare in palestra e mi allenavo duramente con un solo obiettivo in testa, il titolo italiano. Appena arrivato in palestra, dopo la vittoria del titolo di seconda serie, invece di ricevere incoraggiamenti fui accusato di un pugilato mediocre, avevo vinto soltanto pochi round e che nessuno aveva applaudito perché si erano addormentati.
Spesso proponevo di combattere a chi mi criticava, ma la risposta era sempre che non mi allenavo abbastanza. Poi arrivò il Covid, e così persi due anni preziosi.
Poi la svolta, la decisione di cambiare palestra, ma meglio tardi che mai: così mi rivolsi ai  maestri, Italo Mattioli e Gigi Ascani.
Alla Roma XI mi sentii rinascere: finalmente un ambiente, dove respiravo pugilato autentico, senza invidie né presunzione. Per il rientro Italo scelse un avversario adatto: non un collaudatore inutile, né un match titolato troppo impegnativo dopo due anni di fermo, ma la giusta via di mezzo. Con Gigi e Italo mi preparai a dovere, lavorando sulla gestione delle energie, sulle braccia e sulle gambe.
Sul ring ero finalmente sicuro di me. Non so se ero in vantaggio ai cartellini, ma nell’ultimo secondo dell’ultimo round, su un incrocio, vengo contato. Perdo quel round e di conseguenza l’incontro. Appena tornato all’angolo, Italo mi disse chiaramente: “Hai perso, Luchè”.
Nonostante la sconfitta, mi rimisi subito al lavoro. Mi dissero che forse conveniva cambiare categoria, visto che all’ultimo match ero sceso a 62 chili. Tornai ad allenarmi con regolarità, facendo i guanti una volta a settimana come sempre, segnandomi tutto sull’agenda.
Ricordo il mio ultimo allenamento: feci i guanti con un compagno palestra. Già sotto la doccia avvertii un leggero dolore, ma non gli diedi peso.

Descrivi esattamente cosa è successoHai avuto sintomi immediati (perdita di coscienza, vomito, cefalea forte, vomito, perdita di memoria, problemi di vista, vomito, altri segni)?Sei stato visitato sul posto o portato in ospedale? Se sì,dove e quali diagnosi ti hanno fatto?
Dopo l’allenamento tornai a casa guidando a lungo, la mia abitazione dista tantissimi Km dalla palestra, e il dolore continua. Ma io continuavo a pensare: “Solo stanchezza”.
Mi fermai a bere una Coca Cola in un bar, ma il dolore era incessante sempre lì, e io continuavo a convincermi che era solo fatica.
Dopo cena andai a letto come sempre. Ma nella notte, forse verso le due, mi alzai di colpo per andare a vomitare. Il dolore alla testa aumentava ancora di più. In quel momento ho capito subito che stavo morendo.
Chiamai mio padre, che era al lavoro, e gli dissi:
«Ho preso dei colpi, ho dolore e vomito. Chiamo l’ambulanza o aspetto domani? Ho un trauma?»
Lui mi rispose:
«Chiama subito l’ambulanza.»
Io dico che avrei avvisato anche il mio allenatore. Lo chiamai e gli spiegai che avevo un trauma.
Poi al telefono con il 118 e dissi a gran voce
«Sbrigatevi!»
Sapevo che non mi restava molto. L’ultimo flash che ricordo è me stesso che dico a voce alta:
«Ho preso colpi in testa.»
Vedo ancora i lampeggianti accesi: ero già in ambulanza. Da lì il buio totale per 15 giorni. Il coma.
La diagnosi ufficiale? Emorragia cerebrale temporo-parietale destra.

Hai seguito un percorso di riabilitazione?
R: Sì, e credo di doverlo ricominciare.

Che tipo di riabilitazione?
Esercizi cognitivi per allenare la memoria, come ripetere storie ascoltate e ritrovare oggetti riposti.

Quanto è durato?
Forse un anno, o anche di più.
Ti sei sentito abbandonato o sostenuto dal movimento pugilistico?
R:Sono stato contattato da molte persone del movimento e mi ha fatto molto piacere vedere che si ricordavano di me sentendomi dire anche belle cose, primi tra tutti dalla Boxe Roma XI

D: Perché la vicenda non è stata resa pubblica? È stata una tua scelta o di altri?
R:Non ricordo bene perché questa storia non sia mai stata resa pubblica, ma oggi sono pronto a farlo. Tutti devono sapere.Questo sport non è pericoloso di per sé, ma purtroppo è pieno di persone improvvisate che possono causare danni veri. Ragazzi e genitori che vogliono avvicinarsi al pugilato devono solo fare attenzione a chi si affidano.Io spero che la federazione intervenga e tolga i brevetti a pseudo-maestri e pseudo-preparatori. Non aspettate che qualche ragazzo perda la vita per colpa di gente che apre palestre senza la competenza necessaria, spinta più dall’illusione che dalla preparazione reale.

Hai vissuto momenti di solitudine o difficoltà psicologiche durante la convalescenza?
Sì. Quando mi sono risvegliato, non so nemmeno da quanto tempo fossi in coma, ho sentito una dottoressa (o almeno mi sembrava una voce femminile) dire che c’era il prete, così potevo parlarci. Ho capito subito che stava arrivando l’estrema unzione. Riuscivo solo a muovere la testa per dire di no; credo di aver detto di chiamare mia madre, volevo che mi vedesse ancora vivo.
Quando sentivo gridare dalle altre stanze, capivo che forse non erano i pazienti: erano le mamme arrivate troppo tardi, che avevano trovato i loro figli già morti. In quei momenti volevo solo abbracciare i miei.
Al mio risveglio ho ricevuto molti messaggi dal maestro Italo e dai compagni di squadra. Ho letto parole bellissime che mi hanno colpito profondamente. Anche tanti amici mi hanno scritto: due sono venuti a trovarmi fino in ospedale, altri mi hanno visitato a casa. I compagni, quando sono passato alla Roma XI a salutarli, mi hanno detto cose che non dimenticherò mai.

Dalla tua esperienza, cosa vorresti che gli organi di controllo facessero per migliorare la sicurezza nelle palestre? Cosa vorresti che sapessero i tuoi colleghi?
R:Vorrei che gli organi di controllo cambiassero radicalmente il sistema di abilitazione degli istruttori e che venisse data anche qualche “addrizzata” agli arbitri. Ai miei colleghi dico di fare molta attenzione a chi si affidano e di continuare ad aggiornarsi sempre. L’ignoranza è una brutta bestia.

Guardando indietro, cosa cambieresti della tua carriera?
….. Tutto quello che si da per scontato!

C’è qualcuno che vuoi ringraziare pubblicamente per l’aiuto ricevuto?
Sì: Italo Mattioli e Luigi Ascani, Maria, Mattia e i miei genitori.

Cosa ti aspetti adesso — a breve e a lungo termine — dalla tua vita?
A breve termine non mi sento di parlare troppo, perché l’ictus mi ha tolto la memoria a breve termine. Ma dopo tutto quello che ho attraversato, il resto è in discesa. L’ictus vince quasi sempre prima del limite: io, invece, sono arrivato al verdetto.

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Redazione

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