IO SONO MOHAMMAD JAVAD VAFAEI SANI
IO SONO MOHAMMAD JAVAD VAFAEI SANI
Il coraggio ha un prezzo. A volte quel prezzo è tutto.
Chiudete gli occhi per un momento. Provate a immaginare cosa significhi scegliere di restare quando potreste fuggire. Cosa significhi stringere i guantoni quando ogni pugno potrebbe essere l’ultimo. Cosa significhi guardare negli occhi i tuoi ragazzi in una palestra di Mashhad e sussurrare la parola più pericolosa che esista in Iran: libertà.
Mohammad Javad Vafaei Sani ha trent’anni. È un campione di boxe, un allenatore, e ora un condannato a morte. Ma prima di essere tutto questo, è stato un sognatore. Come Muhammad Ali, l’uomo che galleggiava come una farfalla e pungeva come un’ape, Sani ha capito che il ring non era abbastanza. Che i pugni più importanti non si tirano contro un avversario, ma contro un sistema che vuole spezzarti.
Il peso della storia: quando un ring diventa un palco per la libertà
Muhammad Ali fu spogliato del suo titolo mondiale, bandito dalla boxe per tre anni e mezzo dal 1967 al 1970 durante i suoi anni migliori, tra i 25 e i 28 anni. Il suo crimine? Rifiutarsi di combattere in Vietnam, rifiutarsi di uccidere persone che non gli avevano fatto nulla. “Perché dovrebbero chiedermi di indossare un’uniforme e andare a 10.000 miglia da casa per sganciare bombe e pallottole su persone di colore in Vietnam, mentre i cosiddetti negri a Louisville sono trattati come cani e privati dei diritti umani fondamentali?”disse Ali.
Quella domanda echeggiò attraverso l’America, risvegliando coscienze, accendendo rivolte interiori. Ali pagò tutto: il titolo, il denaro, la libertà fu condannato a cinque anni di prigione. Ma non piegò mai la schiena. Non chinò mai il capo. Divenne più grande del ring, più grande della boxe, più grande di se stesso.
Oggi, a 9.000 chilometri da Louisville, in una palestra polverosa di Mashhad, un altro pugile ha fatto la stessa scelta impossibile.
Tra i muri che hanno orecchie: il coraggio di sussurrare la rivoluzione
Mohammad Javad Vafaei Sani ha iniziato ad allenare boxe in vari club all’età di 21 anni, dedicando parte del suo tempo anche all’insegnamento della boxe e dell’autodifesa ai bambini lavoratori di Mashhad . I bambini lavoratori. Pensate a questo. Ragazzi che non hanno mai avuto niente, che conoscono il sudore prima delle carezze, la fatica prima dei sogni. E Sani, invece di andarsene, invece di sfruttare il suo talento per costruire una vita altrove, è rimasto. Ha insegnato loro a difendersi. Non solo dai pugni, ma dall’oppressione.
Nella sua palestra, Sani è sostenitore dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (PMOI/MEK), un gruppo di opposizione laico che continua a combattere nonostante la repressione totale di ogni forma libera di espressione. Ha parlato di democrazia. Di diritti. Di un Iran diverso. Lo ha fatto sapendo perfettamente cosa succede a chi osa sognare in voce alta in una repubblica islamica dove il potere è condiviso tra la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, e il Presidente.
Ogni parola pronunciata in quella palestra era un atto di guerra silenziosa. Ogni ragazzo che ascoltava era una promessa di futuro. E quando quel futuro è proibito per legge, sussurrarlo diventa un crimine capitale.
Novembre 2019: quando un popolo disse basta
Nel novembre 2019, dopo l’annuncio improvviso del governo di un aumento dei prezzi del carburante dal 50 al 200%, l’Iran esplose in proteste di massa che coinvolsero più di 100 città. Le stime parlano di almeno 321 persone uccise documentate da Amnesty International, ma alcuni rapporti suggeriscono che il numero reale delle vittime potrebbe raggiungere i 1.500, o anche 3.000.
Il governo impose un blackout quasi totale di internet dal 15 al 19 novembre e lanciò la più brutale repressione contro i manifestanti degli ultimi decenni. Carri armati nelle strade. Mitragliatori contro persone disarmate. A Mahshahr, le Guardie Rivoluzionarie circondarono i manifestanti in una palude e li fucilarono con mitragliatrici, uccidendone almeno 100. I morti furono portati via su camion.
Mohammad Javad Vafaei Sani fu arrestato nel marzo 2020 dalle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), all’indomani di quelle proteste. Fu sottoposto a 65 giorni di intense torture fisiche e psicologiche.
Provate a immaginare 65 giorni. Due mesi interi. In ogni momento di ogni giorno, qualcuno cerca di spezzarti. Di farti dire quello che vogliono. Di cancellarti. Ma Sani non ha parlato. Non ha rinnegato. Non ha tradito i suoi ragazzi, i suoi ideali, quel sussurro chiamato libertà.
Tre volte condannato, mai piegato
La storia di Sani è kafkiana nella sua crudeltà. È stato condannato a morte per “corruzione sulla terra” e affiliazione al PMOI/MEK. La sua condanna è stata annullata due volte dalla Corte Suprema iraniana nel novembre/dicembre 2022 e di nuovo nel maggio/giugno 2024 a causa di “numerose falle legali”. Ma ogni volta, il tribunale rivoluzionario di Mashhad lo ha condannato di nuovo.
Il 18 settembre 2024, per la terza volta, i giudici Saadi Makan e Yazdan-Khah hanno emesso la sentenza di morte. Il 4 ottobre 2025, la Corte Suprema dell’Iran ha confermato definitivamente la condanna.
Il suo avvocato, Babak Paknia, ha dichiarato pubblicamente che il verdetto è stato confermato nonostante le falle legali e ha scritto al capo della magistratura riguardo all'”interferenza di terze parti” nei procedimenti legali, un chiaro riferimento ai servizi di intelligence che hanno manipolato il caso.
Tre volte. Lo hanno condannato tre volte per lo stesso “crimine”: credere in qualcosa di diverso. In cinque anni di prigione, Sani ha trascorso il tempo sotto torture e in isolamento. Ma non ha mai rinnegato. Non ha mai piegato la schiena.
È questo che separa gli eroi dai sopravvissuti: gli eroi scelgono di non sopravvivere se il prezzo è rinunciare a chi sono.
Il silenzio assordante del mondo
Questa escalation allarmante sta avvenendo sotto la presidenza di Masoud Pezeshkian, con un numero record di oltre 1.800 esecuzioni effettuate da quando ha assunto l’incarico nell’agosto 2024. Il regime iraniano sta usando la pena di morte come strumento politico, come arma di terrore.
Almeno 17 altri prigionieri politici sono attualmente nel braccio della morte con accuse simili, tutti dopo processi viziati da torture e completa mancanza di equità. Altri atleti iraniani hanno già pagato con la vita. Mohammed Mahdi Karami, campione decorato di karate, fu giustiziato il 7 gennaio 2023 Iper presunta partecipazione alle proteste del 2022.
Ma il mondo guarda altrove. Le federazioni sportive internazionali restano in silenzio. Solo recentemente, atleti tra cui Martina Navratilova, Riley Gaines, Nancy Hogshead e Sharron Davies hanno firmato una lettera per condannare la decisione del regime iraniano e chiedere all’ONU e agli organismi sportivi globali di intervenire urgentemente per fermare l’esecuzione.
Ma dove sono gli altri? Dove sono le voci dei campioni del mondo? Dove sono le proteste nelle piazze, le petizioni, l’indignazione?
Il prezzo del sogno
Muhammad Ali disse una volta che l’uomo che guarda il mondo a cinquant’anni allo stesso modo di quando ne aveva venti ha sprecato trent’anni della sua vita. Sani non avrà questa possibilità. Ha trent’anni. Trent’anni e una sentenza di morte che pende sopra la sua testa come una ghigliottina silenziosa.
Ma prima di morire se il mondo lo lascerà morire Sani avrà fatto qualcosa che la maggior parte di noi non farà mai: avrà vissuto in piedi anziché morire in ginocchio. Avrà guardato negli occhi dei suoi ragazzi e avrà detto loro che esiste qualcosa per cui vale la pena combattere. Che la libertà non è un dono, è una conquista. Che ogni generazione deve scegliere se voglia essere complice del silenzio o voce del cambiamento.
In Iran, dove i muri hanno orecchie e le parole possono uccidere, Sani ha scelto di parlare. Ha usato il pugilato non per arricchirsi, ma per dare speranza. Ha allenato bambini poveri non per vincere medaglie, ma per insegnare loro a difendersinon solo dai pugni, ma dall’oppressione.
E ora, mentre il cappio si stringe, il mondo fa quello che fa sempre meglio: distogliere lo sguardo.
Noi siamo Mohammad Javad Vafaei Sani
Ali fu come un faro per gli atleti afroamericani che vennero dopo di lui, aprendo la strada affinché le proteste degli atleti diventassero più accettabili per il pubblico generale. La sua eredità non è solo nei titoli mondiali che vinse, ma nelle coscienze che risvegliò.
Sani sta facendo lo stesso in Iran. In un paese dove la Guida Suprema e il governo reprimono totalmente ogni forma libera di espressione, lui ha scelto di essere voce. E per questo, lo vogliono zittire per sempre.
Ma noi possiamo scegliere di non permetterlo. Non con il silenzio. Non con l’indifferenza.
Spero che il popolo italiano, la Federazione Pugilistica Italiana, il CONI, dopo questo articolo possano far sentire la loro voce. Spero che i giovani assopiti dai social comprendano il valore del combattere non con i pugni, ma con le idee, con la voce, con la presenza.
Noi pugili lo sappiamo bene. Nel ring impari che ogni round può essere l’ultimo. Che non puoi permetterti di mollare. Che anche quando sei a terra, devi rialzarti. Perché la vera sconfitta non è cadere, è restare a terra.
E oggi, dal profondo del cuore, mi sento di gridare al mondo: IO SONO MOHAMMAD JAVAD VAFAEI SANI!
Perché se non lo gridiamo noi, chi lo farà? Se non ci indigniamo noi, chi si indignerà? Se lasciamo che il silenzio diventi complicità, allora avremo tradito non solo Sani, ma ogni ideale per cui generazioni prima di noi hanno lottato e sono morte.
La libertà non è gratuita. Chiede sacrificio, coraggio, voce. E a volte chiede tutto.
Mohammad Javad Vafaei Sani è pronto a dare tutto.
La domanda è: noi siamo pronti almeno a ricordare il suo nome?
Nel silenzio di una cella iraniana, un pugile attende. Attende giustizia. Attende il mondo. Attende che qualcuno, chiunque, si ricordi che la libertà è un diritto, non un privilegio. Che ogni vita ha valore. Che anche sussurrare un sogno in un paese dove i sogni sono proibiti è l’atto di coraggio più grande che esista.
E mentre attende, i suoi ragazzi quei bambini lavoratori a cui insegnò a difendersi non dimenticheranno mai le sue parole. Anche se il regime dovesse togliergli la vita, non potrà mai togliere quello che ha seminato: speranza.
E la speranza, anche quando sussurrata, è la forza più potente che esista.